Articolo a cura di Mariateresa Armentano
Le montagne, i boschi e le grotte del Pollino nel nostro territorio non sono stati luoghi di rifugio solo dei monaci italo-greci nel IX e X sec. ma in tempi più vicini a noi, dopo l’Unità d’Italia, nascondigli dei briganti lucani e calabresi nel periodo cosiddetto del secondo brigantaggio. In origine i briganti erano militari sbandati che avevano combattuto nell’esercito borbonico, poi la protesta si ampliò ai contadini poveri, sfruttati e traditi dalle promesse di una rivoluzione agraria che sarebbe dovuta nascere dal nuovo Stato unitario che, invece, non seppe fare altro che usare la repressione (120 mila uomini) contro i briganti.
Nelle nostre zone, anche nell’area denominata Malomo, soprannominata così forse proprio per la presenza di briganti, operava la banda Franco. Giuseppe Antonio Franco nasce a Francavilla sul Sinni nel 1832. Nella sua giovane vita subisce, come molti contadini della zona, i soprusi dei proprietari di terra e dei notabili del luogo. A causa della povertà della famiglia lavora come forese cioè come pastore in montagna alle dipendenze di ricchi massari affrontando una vita durissima e soffrendo fame e freddo.
I briganti non nascono briganti , lo diventano per le ingiustizie subite , e alla base delle loro imprese ci sono il desiderio di vendetta verso chi ha affamato loro e le loro famiglie e il bisogno di condividere i frutti delle loro ruberie con altri come loro, non certo ideologie politiche, questo nonostante alcuni di loro abbiano servito nell’esercito borbonico e siano legati al re Francesco II. La leva obbligatoria consente al nostro protagonista di imparare a scrivere e a leggere scampando così a un tranello tesogli da Don Nicola Grimaldi a cui il Franco aveva chiesto una raccomandazione per essere inquadrato nel nuovo esercito unitario anche per sfuggire al clima malevolo creatosi per i “licenziati “ dall’esercito borbonico. Il Grimaldi nella lettera inviata, tramite il Franco, al Sottoprefetto di Chiaromonte lo denuncia come delinquente e gli chiede di arrestarlo, non sospettando che il Franco sapesse leggere. La vendetta sarà terribile e Don Nicola pagherà con la vita il tradimento.
A questo punto con altri ex soldati, non volendo ritornare alla precedente vita di stenti, il Franco forma una banda e si nasconde in montagna tra i boschi del Pollino. Il Franco, secondo lo storico Hobsbawm, appartiene alla figura del brigante “classico”, è vittima di ingiustizie, toglie ai ricchi per dare ai poveri e non uccide se non per vendetta o per difendersi, non è nemico del re, muore, come sarà, per il tradimento dei suoi compagni e vive aiutato dalla sua comunità da cui è protetto. Molti suoi compagni originari di paesi vicini Viggianello, Morano, Terranova del Pollino e Saracena hanno condiviso la tragica esistenza di pastori o porcari maltrattati dai loro padroni, spesso figli illegittimi di proprietari terrieri che non hanno per loro nessuna pietà. Spesso i contadini che non sono briganti diventano loro complici e li aiutano anche a far sequestrare i loro padroni. Negli anni più cruenti del brigantaggio, quando le bande si formano e diventano più numerose, altri nomi oltre a quelli di Franco sono conosciuti tra le montagne lucane e calabresi come Crocco alias Carmine Donatelli e Ninco Nanco alias Giuseppe Nicola Summa, luogotenente del suddetto.
Gli inizi della vita da brigante di Franco sono travagliati; poco organizzati, spesso sopravvivono rubando alla gente povera e ai contadini come loro o rapinando i viaggiatori di passaggio soprattutto nei valichi o nei sentieri di montagna del territorio di Castelluccio e non solo, anche nelle colline del Carro, frazione di Tortora, località al confine col territorio di Laino Borgo. I compagni di Franco non sono tutti abituati alla vita durissima del brigante e solo nel 1862 Franco riesce a formare una piccola banda organizzata che imperversa nel territorio del Pollino uno dei primi sequestri, avvenuto nell’aprile 1863, riguarda un ricco possidente di Mormanno Beniamino Fazio e avviene ai confini del territorio di Laino Borgo. Anche se la famiglia paga 400 ducati, il sequestrato viene ucciso perché autorevole militare della Guardia nazionale e quindi persecutore dei briganti. Complice un manutengolo Luigi Apollaro che aiuta i briganti nel sequestro e fa da tramite con la famiglia. La morte del Fazio resta un mistero. Si racconta che il suo sequestro con conseguente morte sia avvenuto non per i soldi ma per rancori personali legati a qualche nemico di Laino Borgo o Castello. E’ chiaro dai fatti che in quel periodo le montagne del Pollino e le campagne di Mormanno e di Laino erano infestate da bande di briganti. Infatti, nello stesso periodo è sequestrato un possidente di Tortora Francesco Maceri che viene liberato dopo il pagamento di 2500 ducati . Ancora con l’aiuto di un manutengolo, la banda opera il sequestro di un possidente che è rapito nel bosco di Malomo tra Laino Borgo e Castello. Una lettera scritta di propria mano dal Franco è recapitata alla famiglia del sequestrato Loigio Attademo.
La richiesta è di tremila ducati e in seguito, date le condizioni di prigionia del malcapitato tenuto segregato in una fossa sottoterra che incidono pesantemente sulla sua salute, la banda si accontenta di 1400 ducati e il rapito ritorna alla sua famiglia ma per i patimenti sofferti non avrà lunga vita. I fatti sono accertati dalla lettera ancora esistente e nelle mani dei discendenti del suddetto Loigi Attademo che è qui pubblicata con una possibile traduzione. Ermanno Sangiorgi, Delegato di Pubblica sicurezza per la sottoprefettura di Castrovillari, aiutato dalla delazione di un appartenente alla banda Domenico Viola di Saracena, è convinto che sarà facile catturare Franco e gli altri rimasti con lui, se gli si toglie l’aiuto dei manutengoli che talvolta sono loro familiari. Persuaso da una donna della famiglia Ciminelli che era sua amante, Franco cade nel tranello della falsa promessa che gli viene fatta di non essere condannato a morte e di un salvacondotto che gli avrebbe consentito di partire per l’America. Il Franco, forse stanco, sa della morte di altri briganti e si avvicina a Lagonegro per stare con la sua amante Serafina Ciminelli. Una sera invitati a una cena a palazzo Zambrotti, vengono poi facilmente catturati dai soldati e dai Carabinieri perché addormentati in preda ai fumi dell’alcool. Anche l’unico brigante che aveva subodorato l’inganno e aveva lasciato la banda, sarà poi catturato. Serafina Ciminelli l’amante e delatrice involontaria non viene scarcerata e morirà a 21 anni nel carcere di Potenza per setticemia, nonostante sia stata scagionata fino agli ultimi istanti della sua vita dallo stesso Franco che l’amava.
Il brigante Franco affronta impavido coraggiosamente la morte per fucilazione alla fine di Dicembre del 1865 come attesta il suo certificato di morte. (Notizie riprese dal testo di Giuseppe Rizzo e Antonio La Rocca “La banda di Antonio Franco”, denominato il lupo del Pollino). In conclusione, il brigantaggio è la storia di un’oppressione di massa. Comunque si voglia valutare, costò la vita a oltre 12.000 contadini e quelli che sfuggirono non ebbero altra salvezza che l’emigrazione nelle Americhe. La loro voce non fu mai ascoltata, la colpa non fu mai dei briganti ma della miseria in cui vivevano e dell’ingiustizia che avevano sofferto. Certi personaggi del GATTOPARDO di Tomasi di Lampedusa incarnano perfettamente l’ipocrisia di una classe dirigente trasformista prima borbonica e poi liberale che fu tra le cause del fenomeno socio-economico del brigantaggio lucano e calabrese.
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